Andiamo con ordine. Un album e’una raccolta, curata e ordinata, di brani nuovi o rimasterizzati, o cover, oppure versioni live o alternate tracks. Questo “the infinite river”, disco dal nome vanamente pomposo, invece non è un album. E’un taccuino di appunti, in cui i pinkies hanno raccolto del materiale che-a loro dire- non aveva trovato posto nei dischi precedenti. Ci credo, o provo a farlo. Parliamo delle sensazioni che evoca: la prima e’di incompletezza, si percepisce chiaramente che sono tracce a cui manca qualcosa, nella maggior parte dei casi la voce, o parte di orchestrazione, e si sente. Altra sensazione e’quella di ascoltare un fantasma partorito da rifiuti del lavoro fatto su “ wish you were here”, uno dei lavori più belli dei PF, a mio avviso, un disco visionario, rivoluzionario, sperimentale, completo, bellissimo. Ma, nel 2014, i suoni che sono contenuti in “the infinite river” non possono essere definiti innovativi, non sono pop, sono suoni e atmosfere che si trovano in qualunque compilation tipo café del mar. Un disco di suoni chillout o lounge, ma senza personalità, senza beat, senza anima. Per cui vi sconsiglio di acquistarlo; ascoltarlo, per curiosità scientifica, si. E detto questo torno a battermi il petto insistendo sul fatto che sono e resto innamorato delle sonorità e delle atmosfere dei Pink Floyd, e che considero questa raccolta di appunti solo una bieca operazione commerciale organizzata dalla casa discografica per tirar su qualche palata di euro, tradendo la fiducia e le aspettative dei fruitori delle opere floydiane. Ci voleva altro, ci voleva un disco impattante come il già citato wish you were here oppure il sognante the dark side of the moon: nessuno penso si aspettasse qualcosa di epico e storicamente impattante come The Wall, ma questo The infinite river e’ proprio una delusione. E se sei in pensione e stai pensando ad altro, come collezionare costose auto d’epoca, non andare a solleticare i fans, non è onesto.
Hi-fi e musica
Il blog nel quale si racconta di riproduzione audio e di musica. Creato da Angelo Jasparro.
lunedì 9 febbraio 2015
Se sei un ricco pensionato, goditi la vecchiaia.
Se avessi dovuto spendere i soldi necessari ad acquistare il nuovo (nuovo?) lavoro dei Pink Floyd, a quest’ora non sarei tanto sereno. Probabilmente starei pensando che mi sono stati rubati dei soldi. Probabilmente .
Andiamo con ordine. Un album e’una raccolta, curata e ordinata, di brani nuovi o rimasterizzati, o cover, oppure versioni live o alternate tracks. Questo “the infinite river”, disco dal nome vanamente pomposo, invece non è un album. E’un taccuino di appunti, in cui i pinkies hanno raccolto del materiale che-a loro dire- non aveva trovato posto nei dischi precedenti. Ci credo, o provo a farlo. Parliamo delle sensazioni che evoca: la prima e’di incompletezza, si percepisce chiaramente che sono tracce a cui manca qualcosa, nella maggior parte dei casi la voce, o parte di orchestrazione, e si sente. Altra sensazione e’quella di ascoltare un fantasma partorito da rifiuti del lavoro fatto su “ wish you were here”, uno dei lavori più belli dei PF, a mio avviso, un disco visionario, rivoluzionario, sperimentale, completo, bellissimo. Ma, nel 2014, i suoni che sono contenuti in “the infinite river” non possono essere definiti innovativi, non sono pop, sono suoni e atmosfere che si trovano in qualunque compilation tipo café del mar. Un disco di suoni chillout o lounge, ma senza personalità, senza beat, senza anima. Per cui vi sconsiglio di acquistarlo; ascoltarlo, per curiosità scientifica, si. E detto questo torno a battermi il petto insistendo sul fatto che sono e resto innamorato delle sonorità e delle atmosfere dei Pink Floyd, e che considero questa raccolta di appunti solo una bieca operazione commerciale organizzata dalla casa discografica per tirar su qualche palata di euro, tradendo la fiducia e le aspettative dei fruitori delle opere floydiane. Ci voleva altro, ci voleva un disco impattante come il già citato wish you were here oppure il sognante the dark side of the moon: nessuno penso si aspettasse qualcosa di epico e storicamente impattante come The Wall, ma questo The infinite river e’ proprio una delusione. E se sei in pensione e stai pensando ad altro, come collezionare costose auto d’epoca, non andare a solleticare i fans, non è onesto.
Andiamo con ordine. Un album e’una raccolta, curata e ordinata, di brani nuovi o rimasterizzati, o cover, oppure versioni live o alternate tracks. Questo “the infinite river”, disco dal nome vanamente pomposo, invece non è un album. E’un taccuino di appunti, in cui i pinkies hanno raccolto del materiale che-a loro dire- non aveva trovato posto nei dischi precedenti. Ci credo, o provo a farlo. Parliamo delle sensazioni che evoca: la prima e’di incompletezza, si percepisce chiaramente che sono tracce a cui manca qualcosa, nella maggior parte dei casi la voce, o parte di orchestrazione, e si sente. Altra sensazione e’quella di ascoltare un fantasma partorito da rifiuti del lavoro fatto su “ wish you were here”, uno dei lavori più belli dei PF, a mio avviso, un disco visionario, rivoluzionario, sperimentale, completo, bellissimo. Ma, nel 2014, i suoni che sono contenuti in “the infinite river” non possono essere definiti innovativi, non sono pop, sono suoni e atmosfere che si trovano in qualunque compilation tipo café del mar. Un disco di suoni chillout o lounge, ma senza personalità, senza beat, senza anima. Per cui vi sconsiglio di acquistarlo; ascoltarlo, per curiosità scientifica, si. E detto questo torno a battermi il petto insistendo sul fatto che sono e resto innamorato delle sonorità e delle atmosfere dei Pink Floyd, e che considero questa raccolta di appunti solo una bieca operazione commerciale organizzata dalla casa discografica per tirar su qualche palata di euro, tradendo la fiducia e le aspettative dei fruitori delle opere floydiane. Ci voleva altro, ci voleva un disco impattante come il già citato wish you were here oppure il sognante the dark side of the moon: nessuno penso si aspettasse qualcosa di epico e storicamente impattante come The Wall, ma questo The infinite river e’ proprio una delusione. E se sei in pensione e stai pensando ad altro, come collezionare costose auto d’epoca, non andare a solleticare i fans, non è onesto.
giovedì 25 settembre 2014
Christopher Hogwood, un ricordo
E' scomparso il 23 scorso il M° Christopher Hogwood.
L'hanno definito il von Karajan del barocco e forse hanno ragione; padrone incontrastato per almeno un decennio della musica di quell'epoca, ha forgiato molti ad un certo gusto per la musica barocca fatta di perfezione formale e di eleganza.
Ascoltato dal vivo più volte, quel che piaceva in lui era l'essere sempre sorridente, sempre comunicativo, come se quella comunicazione attraverso il viso passasse agli strumentisti dell'Academy of Ancient Music che lo ricambiavano.
Inutile scrivere troppe parole.
Restano nella storia recente dell'interpretazione musicale il Messiah di Haendel da lui registrato negli anni 70 (e degli studi che hanno portato a quella esecuzione fece tesoro anche Colin Davis per la sua esecuzione di fine anni 60). Freschezza, comunicatività, accentazione, fraseggio accurato, spogliato da ogni espressione tetra, l'ascolto del Messiah di Hogwood scivolava e scivola via liscio, dall'Ouverture, passando per il Comfort Ye My People, per l'Oh Thou That Tellest Good Tidings, all'intensa aria He Was Despised, fino a giungere a quella meraviglia che è la fuga finale, il lunghissimo, bellissimo Amen. E le Sinfonie di Beethoven che a suo tempo divisero la critica in un nettissimo pro o contro; io ero e sono pro. Non sostituiscono quelle di karajan, ma vi si affiancano.
Ma certo non si possono dimenticare Vivaldi e l'Estro Armonico, l'integrale delle Sinfonie di Mozart, Telemann (altro autore con il quale Hogwood a mio avviso aveva un particolare feeling) e quella che per me resta la più bella esecuzione dei concerti per violino di Johann Sebastian Bach, con Schroder e Hirons ai violini. Ma anche molto altro.
Chiudo con una sola parola per il Maestro: grazie.
Domenico
L'hanno definito il von Karajan del barocco e forse hanno ragione; padrone incontrastato per almeno un decennio della musica di quell'epoca, ha forgiato molti ad un certo gusto per la musica barocca fatta di perfezione formale e di eleganza.
Ascoltato dal vivo più volte, quel che piaceva in lui era l'essere sempre sorridente, sempre comunicativo, come se quella comunicazione attraverso il viso passasse agli strumentisti dell'Academy of Ancient Music che lo ricambiavano.
Inutile scrivere troppe parole.
Restano nella storia recente dell'interpretazione musicale il Messiah di Haendel da lui registrato negli anni 70 (e degli studi che hanno portato a quella esecuzione fece tesoro anche Colin Davis per la sua esecuzione di fine anni 60). Freschezza, comunicatività, accentazione, fraseggio accurato, spogliato da ogni espressione tetra, l'ascolto del Messiah di Hogwood scivolava e scivola via liscio, dall'Ouverture, passando per il Comfort Ye My People, per l'Oh Thou That Tellest Good Tidings, all'intensa aria He Was Despised, fino a giungere a quella meraviglia che è la fuga finale, il lunghissimo, bellissimo Amen. E le Sinfonie di Beethoven che a suo tempo divisero la critica in un nettissimo pro o contro; io ero e sono pro. Non sostituiscono quelle di karajan, ma vi si affiancano.
Ma certo non si possono dimenticare Vivaldi e l'Estro Armonico, l'integrale delle Sinfonie di Mozart, Telemann (altro autore con il quale Hogwood a mio avviso aveva un particolare feeling) e quella che per me resta la più bella esecuzione dei concerti per violino di Johann Sebastian Bach, con Schroder e Hirons ai violini. Ma anche molto altro.
Chiudo con una sola parola per il Maestro: grazie.
Domenico
martedì 4 giugno 2013
Solo ... tra sessantamila! 3 giugno 2013, Bruce Springsteen a Milano
Solo. Mi sono sentito solo. Eppure eravamo in sessantamila. Ma forse ho voluto sentirmi solo.
Capita spesso, quando si vivono sensazioni importanti, di sentirsi soli anche se
intorno a noi c’è il mondo intero. E ieri sera, a San Siro, al concerto del “Boss”,
al secolo Bruce Springsteen, solo mi sono sentito davvero.
Solo perché davanti a chi ti sa regalare tre ore e mezzo di
spettacolo di tale qualità, non vedi più chi ti sta intorno.
Solo perché da ex
musico, quando vedo altri che suonano e a quei livelli, tendo ad aguzzare tutti
i sensi per godere appieno dello spettacolo, al punto di non capire più chi c’è
e chi non c’è al mio fianco.
Solo perché le emozioni profonde non le so
manifestare e già l’applauso mi sembra troppo, mentre gli altri applaudono,
cantano, ballano.
Ma è difficile spiegare a parole cosa si provi durante un
concerto come quello di ieri sera. Molto difficile. Ad ogni concerto, sia di
musica moderna, sia di musica dei tempi passati, mi si rinnovano mille ricordi;
la preparazione, le cosiddette prove; a volte estenuanti. I momenti prima di esibirsi,
con le classiche verifiche del caso, del tipo “dunque, ho tutto con me? Le
partiture? Un fazzoletto? Gli occhiali?” e poi l’emozione dell’uscita davanti
al pubblico, quando il battito cardiaco ti accelera al punto tale da farti
mancare il fiato. Poi bastano tre note e ci si calma e si va avanti sino alla
fine del programma.
Solo che nei programmi di musica classica il pubblico non
partecipa, se non emotivamente, ma resta muto e silenzioso sino alla fine.
Ieri
sera il Boss ha trascinato la folla; e più la folla si faceva trascinare, più
lui affondava il piede sull’acceleratore.
Tre ore e mezza volate in un attimo.
Dopo una prima parte, con brani tratti da sue opere più recenti, il Boss ha
ricordato che la sua prima volta a Milano fu nel 1985, per “Born In The USA”; e
lì è partito l’annuncio “ora vi suoniamo tutti i brani di quel disco”.
L’esplosione
del pubblico è stata incredibile; un boato che è riuscito a scuotere anche me,
che pure sono generalmente piuttosto tetragono ad ogni manifestazione pubblica
di entusiasmo.
Trascinatore il Boss, con un gruppo di trascinatori che pure si
divertono; la E-Street Band. Ma li comprendo; non esiste nulla di più
energizzante del vedere un pubblico che ti risponde, che canta intere strofe al
tuo posto, che conosce a memoria tutte le tue canzoni, che apprezza quel che
fai. E il Boss questo lo sa benissimo.
Una promessa. Caro Bruce, quando torni in Italia (visto che ti piace tanto, come
hai detto ieri sera) sarò tra i primi a comprare il biglietto. D’altro canto,
tu m’insegni, non si vive di solo Bach!
Domenico
venerdì 17 maggio 2013
Signor Censore
Marco Porcio Catone il Censore
14 anni. Avevo 14 anni quando ho comprato, in società con mio fratello Paolo, un disco di Edoardo Bennato che aveva per titolo: "Io che non sono l'Imperatore".
Tra le canzoni contenute in quell'LP, che ricordo ancora perfettamente dopo tanti anni (l'ha tenuto Paolo, io non ce l'ho), ce n'era una che da ieri sera continuo a canticchiare: "Signor Censore". Mai avrei pensato che, sebbene interpretato in modo un po' estensivo, quel testo l'avrei potuto scrivere o cantare io.
Ne riparleremo, credo.
Intanto, eccovi il testo:
Signor Censore - che fai lezioni di morale
tu che hai l'appalto per separare
il bene e il male, sei tu che dici
quello che si deve e non si deve dire...
Signor Censore - nessuno ormai ti fermerà
e tu cancelli in nome della libertà
la tua crociata
per il bene dell'umanità...
Signor Censore - da chi ricevi le istruzioni
per compilare gli elenchi dei cattivi
e buoni?... Lo so è un segreto
lo so che non me lo puoi dire...
Signor Censore - ma quello che nessuno sa
è che sei tu quello che ci disegna
le città... E poi ogni tanto
cancella quello che non gli va...
Signor Censore - tu stai facendo un bel lavoro
disegni case, strade e piazze
a tuo piacere, prima fai un ghetto
poi lo nascondi con un muro...
E mentre il ghetto si continua ad allargare
Signor Censore - tu passi il tempo
a cancellare le frasi sconce
e qualche nudo un po' volgare...
Signor Censore: tu stai facendo un bel lavoro
la tua teoria e che il silenzio è d'oro
prima fai un ghetto
poi lo nascondi con un muro...
E così mentre la gente continua
ad emigrare, tu sfogli i libri
e passi il tempo a cancellare le frasi
sconce, e qualche nudo un po' volgare...
E questa è la canzone:
A presto
Angelo Jasparro
giovedì 28 febbraio 2013
Adieu Madame Alain
Voilà une de ces
nouvelles qui me donnent beaucoup de douleur.
Marie-Claire
Alain est morte. Il me semble impossible qu’elle n’est plus avec nous. Elle
était une compagnie fixe depuis mon enfance ; je l’avais retrouvée en concert
plusieurs fois et je l’avais connue personnellement en 1981, à Saint-Mâlo où j’étais
en vacance et où elle était en train de faire les preuves du concert du soir
avec un autre Grand musicien mort en 2012, le trompettiste Maurice André.
Marie Claire
Alain avait traversé tout l’art de Jean-Sébastien Bach plusieurs fois. Son
interprétation de Bach était une sorte de résumé de l’expérience allemande des interprètes
tel que Karl Richter et les nouvelles interprétations des baroqueux qui
allaient s’affirmer dans le panorama de la musique d’orgue. Elle était la
réconfortante tradition et en même temps elle était une nouvelle légèreté.
Elle était une
personne très simple, sympathique ; je me rappelle que je lui parlais et
je n’avais pas l’impression de me trouver face à un monument de la musique ;
et elle était parmi les plus grands.
Il nous reste la
grande quantité d’enregistrements qu’elle nous a heureusement laissé.
Domenico
Ecco una di quelle notizie che mi addolorano molto.
Marie-Claire
Alain è morta. Mi sembra impossibile che non ci sia più. Era una delle
mie compagnie fin dai tempi dell’infanzia; l’ho ritrovata spesso a concerto e l’avevo
conosciuta personalmente nel 1981, à Saint-Malo ove mi trovavo in vacanza e
dove lei stava facendo le prove del concerto serale insieme ad un altro Grande
musicista morto nel 2012, il trombettista Maurice André.
Marie Claire Alain ha attraversato tutta l’arte di Bach più
volte. La sua interpretazione di Bach era una specie di riassunto tra l’esperienza
tedesca degli interpreti della scuola cui apparteneva Karl Richter e le nuove
interpretazioni dei filologi che si andavano affermando nel panorama della
musica per organo. Lei era la confortante tradizione ma nello stesso tempo era
la nuova leggerezza.
Era anche una persona molto semplice, simpatica; ricordo che
mentre le parlavo, l’impressione non era quella di trovarsi davanti a un monumento
della musica: eppure lei era tra i grandi.
Ci resta la grande quantità di registrazione che ci ha
fortunatamente lasciato.
domenica 24 febbraio 2013
Wolfgang Sawallisch. Un ricordo
Ieri si è spento il Maestro Wolfgang Sawallisch.
Ottimo direttore, capace di tenere l'orchestra come pochi altri, sempre elegante nel gesto, sempre ottimo nel risultato finale, con concerti che puntualmente a La Scala prevedevano lunghi applausi e urla di "bravo! bravo!". E sempre modesto.
Ricordo un concerto in particolare. Una sera, negli anni 70, con in programma la Dal Nuovo Mondo di Dvoràk e l'Also Sprach Zarathustra di Strauss. Un programma molto popolare, strafamoso, nel quale il Maestro seppe pennellare il colore orchestrale dell'Also Sprach come non ho sentito fare, per esempio, da Maazel. O quella dal Nuovo Mondo in cui nel secondo movimento la musica sembrava sospesa nell'aria e il quarto movimento era impetuoso eppure controllato in maniera minuziosa.
Ma in quegli anni il Maestro era spesso ospite a La Scala: Beethoven, Mozart, i due autori sopra citati, ma alla fine sempre lo stesso risultato eccellente.
Era considerato un minore, come molti consideravano Makerrash (da ascoltare la Terza e la Quarta di Brahms su Telarc per capire cosa sapesse fare Makerrash,come sapesse far suonare l'orchestra in modo quasi "corale", cosicché nessuno strumento risultasse neppure lontamente confuso; e dal vivo questa era la caratteristica che più colpiva), altro direttore morto quasi nel silenzio; peccato che chi li ha ascoltati veramente dal vivo non possa minimamente pensarlo.
Il Maestro Sawallisch non ha registrato tanto; preferiva il pubblico, preferiva il teatro dove preparava tutto minuziosamente, come era evidente per chiunque lo avesse visto sul podio.
E questo altro non è che un ricordo e un ringraziamen to ad uno dei direttori che, tra i "grandi", ho più spesso ascoltato, apprezzandolo sempre più.
Domenico
venerdì 8 febbraio 2013
Audio Note Az Two; a volte le cose buone si dimenticano
Le avevo viste nel negozio Sound
Machine, di Stefano Serralunga, a Milano. Usate, vendute a prezzo modico.
Riconate di recente. Mi avevano sempre incuriosito. Tanti anni fa, quasi venti,
avevo avuto in casa le AN-E, sempre di Audio Note, ma con i Burmester che avevo
allora il suono non mi soddisfaceva fino in fondo. Nel frattempo molte cose
sono cambiate nel mio impianto domestico (come peraltro è cambiato il suono
Burmester odierno rispetto a quello dei finali 878 e del pre 897 che avevo
allora, ma questo c’entra poco con le Az Two) e più andavo da Stefano, più mi
veniva voglia di mettere mano al conto corrente. La cifra richiesta era un
terzo del prezzo di listino attuale e ora della fine, guarda oggi, guarda
domani, le ho comprate e le ho issate sino in casa.
Collegate, mi sono trovato
davanti ad una bella porzione del suono AN che conosco, un bel suono chiaro,
con una facilità di emissione notevole; ma forse non le avevo “esplorate” a
sufficienza e dopo qualche mese, causa anche un sovraffollamento di casse
acustiche in giro per casa che mi impedivano una regolare convivenza con la mia
Signora moglie e perché erano le più voluminose che avevo, ho pensato di
disfarmene, vendendole ad un amico che le avrebbe date a suo fratello per
ascoltare un genere di musica definito “tùnz-tùnz-tùnz”, quindi musiche da
ballo o giù di lì (che sono poi quelle che io ascolto in auto, visto che sono
un fedelissimo di Disco Radio). Poi, recentemente, il fratello dell’amico ha
cambiato casa e le casse sono tornate libere e le ho ricomprate. In realtà,
subito dopo averle vendute mi ero reso conto che erano entrare sottopelle e che
ne avrei sentito la mancanza.
Comunque ora sono tornate a casa
e sono collegate all’impianto.
La finitura è proprio economica
ed anzi nella versione Cherry è anche piuttosto bruttarella anzichenò. Gli altoparlanti
sono il consueto woofer in cellulosa tipico delle produzioni di Audio Note (è
lo stesso montato sulla versione entry level della AN-E) da 8 pollici e un
tweeter a cupola da 1,8 cm di diametro montato sotto il woofer. Il carico del
basso è a tromba, come ci dice il produttore. Praticamente, guardando dalla
grande porta posteriore, non si vedono gli altoparlanti che sono celati da un
pannello che scende verso il basso della cassa, dove c’è una feritoia dalla
quale le frequenze basse passano all’altra porzione di cassa acustica per poi
uscire dalla porta posteriore. L’interno della cassa e tutto ricoperto di
materiale smorzante. La morsettiera è predisposta per il bi-wiring. Alte 90 cm,
sono dotate di punte da serrare.
Che dire? Che sono casse
timbricamente sane, ben estese in frequenza, ma che soprattutto suonano con
grande facilità. Quest’ultima è la caratteristica più evidente; uno ascolta e
non si chiede se la dinamica ci sia o meno. Tutto fila via liscio, anche i contrasti
più ampi (ovviamente riferito ad un ascolto in ambiente domestico; se avete una
piazza d’armi rivolgetevi ai veri grandi sistemi a tromba, che quando ben
posizionati e ben alimentati, non li batte nessuno) sono restituiti con
facilità.
Le voci sono molto belle e
comunicano un senso di verità che a questo prezzo uno non si aspetta proprio.
Facili da pilotare anche perché piuttosto efficienti (93 db, secondo il
produttore) non disdegnano l’amplificazione potente, ma lavorano bene anche con
ampli di non esorbitante potenza. Le ricordo, ascoltate anni fa, amplificate
con l’OTO SE di Audio Note, altro apparecchietto che terrei in casa molto
volentieri (è forse l’Audio Note che prediligo). E sono corrette al punto che
si sentono anche tanti piccoli particolari che spesso, con altre casse meno “libere”,
restano un po’ costretti.
Valvole. Si, certo, nascono per
andare con le valvole, ma non disdegnano anche amplificazioni a stato solido,
purché non troppo spinte in alto e reggono tranquillamente massicce dosi di
potenza, restituendo orchestre sinfoniche sufficientemente credibili, portando ad
una rapida crisi gli ambienti meno curati.
Le ho amplificate con il duo
Spectral (DMC12 e DMA50), con il duo Olimpia Audio Guglielmo II/Wyred 4 Sound
ST 250 e devo dire che le preferisco con il secondo (così come mescolando le
amplificazioni, preferisco il pre Olimpia Audio con il DMA50 piuttosto che il
DMC12 con il Wyred 4 Sound). La pienezza del suono del preamplificatore Olimpia
Audio dà maggior soddisfazione finale; diciamo che avvicina di più ad un suono “vero”.
Quanto al posizionamento, in casa
mia, messe in angolo e orientate come dice AN il suono è un po’ gonfio sul
basso; fermo ma gonfio. Preferisco una moderata e non troppo accentuata
distanza dalla parete posteriore. E anche per l’orientamento, piuttosto che
puntare davanti al punto d’ascolto, preferisco tenerle quasi parallele perché
la scena sembra più alta e non si perde in focalizzazione di voci e strumenti.
Bi-wiring? Preferisco il
mono-wiring; il bi ammorbidisce il suono. Se piace …
Comunicative. Questo l’aggettivo
che mi viene costantemente in mente quando le ascolto. In una formale correttezza
passa tanto del pathos della registrazione, rendendo godibile la riproduzione;
e questo anche ai volumi infimi che si devono tenere dopo certi orari. Questi
sono i diffusori passati per casa che meno di tutti sembrano nascondere anche a
volumi bassissimi, da ascolto notturno.
Perché questo scritto e perché
sul blog? Semplice: sul blog perché le casse acustiche sono mie personali e
questo scritto perché ci sono apparecchi che non sono considerati e invece
dovrebbero esserlo. Il che non vuol dire che tutti debbano avere le Az Two in
casa perché ognuno resta libero di scegliere quel che gli pare; ma se c’è in
casa un buon ampli (penso agli NVA, ai piccoli nostrani Syntesis, per fare
degli esempi) non troppo potente, le Az Two possono essere papabili. Peraltro
le si trovano, non senza qualche difficoltà, usate a prezzo basso. Quello di
listino è un po’ alto se si considera la finitura (siamo sui 1700 € la coppia
di street price, forse qualcosa meno), soprattutto la Cherry, perché la Black e
la Noce danno un effetto di “meglio rifinito”, ma che alla fine dei conti,
considerando il risultato, pare anche giustificato.
Insomma, un piccolo tributo ad un
prodotto che mi soddisfa e che alla faccia di chi propala che AN debba andare
solo con AN, io uso con un bel finale in classe D, vivendo felice e
soddisfatto.
Saluti a tutti
Domenico
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